venerdì 24 febbraio 2012

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mercoledì 30 dicembre 2009

Lo Sguardo e L'azione

Una recensione del libro "LO SGUARDO E L'AZIONE: Il video e la fotografia in psicoterapia e nel counseling" di Oliviero Rossi.


Mi è capitato molto spesso di pensare che la “sedia vuota”, oltre che una tecnica psicoterapeutica, potesse essere presa come metafora della riluttanza con cui il gestaltista si pone di fronte alla scrittura. Il valore dato all'esperienza, intesa come globalità dell'agire terapeutico e formativo, e al lavoro sulle emozioni come cardine filosofico e pragmatico della fenomenologia tecnologica gestaltista, è come se ponesse la teoria su uno sfondo concettuale solo di rado evidenziato in primo piano. Nulla esce dalla relazione dialogica tra due individui, la parola perde di valore se non comunicata empaticamente. In questo senso, anche la didattica soffre dello stesso limite e di conseguenza diventa, se non raro, quantomeno difficile trovare nelle librerie un buon libro di gestalt. E, attenzione, non è un problema di erudizione, o di mancanza di interesse nei confronti della scrittura tout court, almeno nella maggior parte dei casi, ma la risultante di un atteggiamento fondamentalmente centrato sul rapporto umano e sul qui e ora della relazione che sulla carta perderebbe tutto il proprio vissuto fenomenologico. È inevitabile pensare invece che un libro si ponga per definizione in un contesto lì e allora e che il gestaltista vero si senta come uno straniero in terra straniera. Se vogliamo, anche la critica stessa che si fa della psicanalisi e dei suoi modelli teorici da un punto di vista epistemologico può essere inserita nella prospettiva di contrasto che si genera tra un approccio basato sull'esperienza, la gestalt appunto, ed uno basato sull'interpretare, vero giardino dell'Eden della parola scritta. È evidente la mole di contributi letterari prodotti in altri contesti psicoterapeutici che vanno da quello cognitivo-comportamentale a quello sistemico-relazionale. Gli unici contributi di un certo rilievo che solo di recente riescono a imporsi all'attenzione anche in ambito gestaltico, sono invece quelli generati dall'uso dell'arte-terapia. Come mai? Perché si trova più interessante spostare l'asse dell'elaborazione concettuale sui mediatori artistici piuttosto che sui concetti e le tecniche di una psicoterapia quantomai viva e prolifica di pratiche eterogenee? L'idea che mi sono fatto, in anni di formazione, lettura ed esperienza diretta, è che l'arte-terapia, o comunque la mediazione artistica, riesca a produrre e fertilizzare quell'ambiguo rapporto tra il gestaltista innamorato del suo lavoro e la sedia calda dello scrittore; che riesca a generare una rete semantica di parole e concetti immediatamente comprensibile e non identificabile come mera speculazione teoretica da porre inevitabilmente a distanza rispetto all'esperienza. L'arte, infatti, è di per sé esperienza, un territorio in cui il gestaltista, forse, può muoversi con maggiore sicurezza ontologica.

Lo sguardo e l'azione, invece, è proprio un libro di gestalt. Gestalt in azione, appunto. Oliviero Rossi riesce nella difficile operazione di raccontarsi e raccontare, prescindendo e riducendo quella distanza tipica tra le due sedie, quella del terapeuta e quella dello scrittore, di cui si parlava prima. È un lavoro che sintetizza un'esperienza, la videoterapia, affrontata sia da un punto di vista tecnico che da un punto di vista personale.

Comincia con la prefazione di Bruno Callieri, omaggio senz'altro gradito e prestigioso, che delinea i confini contestuali all'interno dei quali inserire il corpo del testo. Ed è un testo appunto per certi aspetti decisamente “tecnologico” e innovativo, dove per tecnologico ci si riferisce, non solo alla materialità oggettuale evocata dagli strumenti della video e fototerapia, quanto a un “saper fare” terapia proprio della gestalt e nuovo per ispirazione e motivazione. Lo sguardo e l'azione non è tanto un libro di arte-terapia, come semplicisticamente si potrebbe pensare riferendosi alle tecniche descritte e tornando nel merito dell'incipit di questo articolo, bensì un libro sull'arte della terapia, o meglio della relazione d'aiuto. Non è un caso infatti che la maggior parte dei riferimenti bibliografici vada a scomodare autori come Roland Barthes o Susan Sontag, perchè il senso proprio di tutta la narrazione, più che nell'enunciazione di metodi terapeutici, sta nell'evocazione di nuovi sguardi sulla persona mediati dalle immagini.

Potrebbe apparire una tendenza contemporanea quella di centrare l'attenzione sull'immagine come nuovo e invadente filtro percettivo della nostra società, ma in questo caso l'occhio va più nel profondo. Quello che interessa a Oliviero Rossi non è tanto il valore estetico della percezione, ma il suo proprio nesso fenomenologico con l'essere nel mondo della persona. Non la parvenza, ma l'individuazione.

Superando, quindi, e sperando di aver sciolto, i primi equivoci che potrebbero sorgere ad una lettura distratta, entriamo più nel merito delle questioni affrontate da Oliviero Rossi.

Il testo alterna senza soluzione di continuità due registri semantici intrecciati: quello più biografico ed esperienziale e quello più teorico e tecnico. Il dialogo tra i due livelli è forse l'elemento narrativo più significativo, perché permette al lettore una reale esperienza di quello che viene proposto. Sono infatti raccontate, illustrate e spiegate diverse situazioni terapeutiche o didattiche, all'interno delle quali il lettore può muoversi con curiosità e avere un contatto diretto con i contenuti proposti. Partendo dalla propria biografia, poi, Rossi ci introduce al contatto con l'immagine fotografica, primum movens della sua ricerca tecnica, da questa al movimento della ripresa video, per giungere al senso del raccontare e del raccontarsi attraverso di esse.

Ci sono probabilmente infiniti modi di guardare un'immagine, tanti quanti sono gli occhi di chi ha il coraggio di farlo con onestà intellettuale e con la voglia di scoprire. Ma anche qui va fatta una precisazione: saper guardare non significa interpretare, scoprire non si traduce in analizzare. Ogni fotografia genera e porta con sé uno sguardo sulla memoria, sul ricordo. Ma quello che spesso accade, nel momento in cui si guarda una vecchia fotografia, è proprio l'oblio del momento presente. È come se il passato si materializzasse a coprire il presente, a renderlo vacuo, inerme di fronte all'infinito dell'evocazione. Ed è qui che si inserisce, come un chiavistello sottilissimo, l'azione terapeutica: a rendere fecondo nel presente lo sguardo sul passato, spostarlo verso il futuro, e dilatando, in un continuo gioco tra le polarità dialogiche dell'essere umano, la percezione dell'attuale.

lunedì 26 gennaio 2009

Intervista a Paolo Quattrini

Ecco qui di seguito il testo di un'intervista che ho fatto a Paolo Quattrini, Direttore scientifico dell'Istituto Gestalt Firenze, sulla malattia mentale e sul "fare diagnosi" pubblicata sulla rivista INformazione n.12/08. A breve il video completo...

Santoro Ripercorrendo la storia della psichiatria, e in particolar modo di quella che venne chiamata antipsichiatria dai vari Laing, Goffmann e Basaglia, sono nati tutta una serie di dubbi epistemologici, in modo particolare rispetto a quella che Basaglia chiamò, da un punto di vista fenomenologico, la “messa tra parentesi della malattia mentale”. Allora, tanto per cominciare, cosa vuol dire malattia mentale per un gestaltista?

Quattrini Ha un significato diverso, a seconda che si tratti di Gestalt a orientamento pragmatico o fenomenologico esistenziale: in questo secondo indirizzo non si può parlare di malattia mentale semplicemente perché sarebbe fare di un processo un oggetto, e dato che il lavoro terapeutico di tipo fenomenologico si confronta con i processi, parlare qui di malattia mentale non è di nessuna utilità. Dal punto di vista gestaltico si guarda il soffrire della persona e ci si confronta direttamente con questo, senza metterlo nel contenitore di altri soffrire nella stessa maniera, cosa che sarebbe poi la diagnosi. Qui non si usa una diagnosi di patologie in quanto, una volta diagnosticato, non è che si abbia poi strumenti per la terapia: se una persona si diagnostica per esempio paranoica invece che schizofrenica, il lavoro consiste comunque nel confrontarsi con la specificità della sua esperienza. C’è una specie di qui pro quo tradizionale in questo: siccome tradizionalmente in medicina la diagnosi è fondamentale, allora si è importata anche nella psicoterapia. Gli psicologi poi che non sono psicoterapeuti, non avendo strumenti terapeutici in proprio, si limitano a fare diagnosi per qualcun altro, o per qualche scopo che non sia terapeutico.

Santoro Per quello che riguarda la diagnosi fenomenologica, il termine diagnosi è pretestuale o ha un senso specifico rispetto al termine “fenomenologico”?

Quattrini La diagnosi si dice fenomenologia invece che metapsicologica quando non diagnostica una dinamica fra strutture psichiche ipotetiche che sta sotto i comportamenti, ma si riferisce ai fenomeni, sia a quelli primari che a quelli secondari. Nella Gestalt la terapia è un’interazione diretta con la persona come si presenta momento per momento, dove si osserva come fa e si ascolta l’effetto che fa: per poter interagire realisticamente bisogna riconoscere i fenomeni che la persona presenta, cioè bisogna accorgersi di dove va la sua attenzione e che effetto gli fa quello che percepisce, e allo stesso tempo stare in contatto con la propria esperienza. La diagnosi fenomenologica passa in primo luogo per le incongruenze riscontrabili nel comportamento della persona e per l’effetto che fanno allo psicoterapeuta, il quale può capire per via empatica, cioè ponendosi nei panni dell’altro, cosa sta succedendo nel suo mondo interno. Si tratta insomma effettivamente di diagnosi, dia-gnosis, una conoscenza che si spinge oltre la superficie, e fenomenologica, in quanto tiene conto sia dei fenomeni primari, cioè di quello che il terapeuta percepisce fuori, che di quelli secondari, cioè dell’effetto che gli fanno.
Ci sono comunque alcune differenziazioni della diagnostica psichiatrica che trovano senso sul piano pratico anche per i gestaltisti, soprattutto tre categorie di uso comune, riconoscibili per via fenomenica: i nevrotici, (o normotici, come li chiama Bruno Callieri), i borderline e gli psicotici.
Queste tre categorie diagnostiche vanno conosciute, perché comportano differenze importanti riguardo alla comprensione e all’interazione. Per esempio, le persone con sindrome borderline in genere non fanno tesoro di quello che capiscono, per cui in una seduta possono capire qualcosa di importante, ma a quella dopo si presentano come se invece non avessero capito nulla. Quando si lavora con persone così, bisogna evitare di appoggiarsi sull’importanza del capire, che serve a poco, in quanto di quello che capiscono non se ne fanno quasi nulla. Dal punto di vista dalla Gestalt questo però non si collega a un concetto di malattia, è semplicemente fenomenologia dell’esperienza: i borderline in linea di massima si presentano come persone che non fanno tesoro dell’esperienza, e questo è un fenomeno che si ripete. In Gestalt non si teorizza un processo che li porta fin lì, ma semplicemente si osserva che quando si riconosce una sindrome borderline è meglio stare attenti a non fermarsi al capire, perché in genere non serve a niente: è insomma un’accortezza, non una regola da applicare meccanicamente. Un altro problema importante è poi, per esempio, quello del contatto fisico: nevrotici, borderline e psicotici reagiscono in modo molto differente, quello che per una categoria è normale per un’altra può essere drammatico, e bisogna saperlo per evitare incidenti.

Santoro Quello che mi pone dei dubbi è comunque il determinismo dei ragionamenti clinici, che può sembrare simile a quello della diagnostica. Per esempio l’inferenza che si fa tra l’avere di fronte una persona che non apprende dall’esperienza e il definirla in un certo modo, e viceversa: in realtà può capitare che una persona non apprenda dall’esperienza, ma che non sia borderline, o che sia e che riesca in qualche modo anche ad apprendere dall’esperienza e così all’infinito. La singolarità dei casi mette sempre in crisi il criterio, e qui nasce la critica epistemologica dei criteri diagnostici: in questo senso nella pratica della Gestalt trovo lo spazio per dare attenzione alla singolarità e non alla media, però anche qui concettualmente rimane l’aporia di fondo.

Quattrini Mi viene in mente una storia: si dice che trovarono Marx a fare l’elemosina e gli dissero: “ma come, Lei ha teorizzato tanto contro il fare l’elemosina, ha detto che un marxista non deve fare l’elemosina, e allora?”; e pare che Marx abbia risposto: “ ma io non sono mica marxista!”. Il fatto è questo: nella Gestalt non si può usare la diagnosi psichiatrica come elemento teoreticamente vincolante, ma lo si può fare in modo pragmatico, senza dargli troppo peso, per quello che può aiutare sul momento. Usarla significa trarne delle indicazioni per indirizzare l’attenzione: per esempio se si riconosce in una persona il fenomeno che in Gestalt si chiamerebbe slippery ego bounderies, che è come in genere si presenta fenomenicamente una sindrome borderline, allora ci si dovrebbe ricordare ”stai a vedere che magari questa persona non apprende dall’esperienza!” Allora si sta più attenti e si verifica: se si vede che è così bisogna trovare qualche altra base di appoggio per la relazione di aiuto.
E’ vero che nella Gestalt non ci si riferisce a strutture, ma da un punto di vista teorico fra strutture e processi non c’è una separazione netta: le strutture sono processi lenti. In realtà tutto è processo, la materia stessa è solo apparentemente struttura, e il liquido non è radicalmente differente dal solido, è solo un processo più rapido: anche il solido si muove, ma molto più lentamente.

Santoro Quindi si può dire che lo strumento diagnostico può servire a sincronizzarsi rispetto alla lentezza o alla velocità del processo in corso?

Quattrini Sì, perchè alcune cose si trasformano più velocemente sotto l’occhio, altre più lentamente, e questo movimento più lento va riconosciuto e accettato così. Per trasformare il ghiaccio in acqua c’è bisogno di un certo periodo di tempo, e un pezzo di ghiaccio finché non si scioglie rimane un solido, e va trattato come un solido. Un sintomo è un processo, ma è un processo lento, e finché non ridiventa processo è come se fosse un solido: va trattato contingentemente come solido, ma senza crederlo tale, altrimenti solido, cioè struttura, lo rimarrà sempre. Il problema è fra “trattato” e “creduto”: il ghiaccio trattandolo come solido si può momentaneamente gestire come tale, facendogli però uno spazio per lo scongelamento, quando è dell’acqua che si ha bisogno.

Santoro Quindi si può dire che non aggrapparsi alla diagnosi dà allo psicoterapeuta la possibilità di confrontarsi meglio con i processi?

Quattrini Quando ci si esprime attraverso un linguaggio analogico, questo fa senso, arriva direttamente a destinazione e produce da sé un effetto: una diagnosi classica, che è un’operazione digitale, cioè concettuale e astratta, non produce nulla da sola perché è come se fosse un significato senza senso, che non facilità né il rapporto fra il paziente e i suoi processi interni, né il contatto fra paziente e terapeuta.
In realtà, non è un problema di diagnosi sì o no, ma dello scopo con cui la si fa. C’è differenza intanto tra fare una diagnosi che poi si amministra direttamente o diagnosticare per qualcos’altro, per qualcun altro: per esempio, uno psichiatra che diagnostica fa un uso diretto della sua diagnosi, perché a questa corrispondono dei farmaci. Se la diagnosi va a qualcun altro, magari a uno psicoterapeuta a cui non servono indicazioni farmacologiche ma piuttosto osservazioni sul mondo interno, questo si trova di fronte un oggetto particolarmente difficile da scongelare, visto che non l’ha mai visto come processo. Lo riceve come solido, non lo ha mai visto come liquido e riportare da solido a liquido non è facile quando non è lui che lo ha solidificato: almeno, nell’operazione di solidificazione rimane un’immagine di quella cosa allo stato liquido, cioè del processo che sottende. Insomma, se lo psicoterapeuta non lascia la presa sulla diagnosi avrà difficoltà a interagire con la persona.

Santoro Effettivamente le parole si reificano nell’uso quotidiano, e spesso in questo modo vanificano il loro valore metaforico: quando si riesce ad esprimersi attraverso immagini il processo scorre più facilmente, ma quando si fa attraverso concetti facilmente si sclerotizza. Da qui l’importanza per un gestaltista di usarle in un modo piuttosto che in un altro, sempre facendo i conti col fatto che l’apparato linguistico ormai c’è e produce conseguenze anche in psicologia, non solo in psichiatria, e che quindi dalla diagnosi non si sfugge. Sembra insomma che la psicologia da un punto di vista linguistico sia ormai entrata a far parte della medicina: si può uscire da questa discutibile eredità?

Quattrini Mi sembra improbabile che la psicologia rinunci alla diagnosi, però c’è molta differenza fra test proiettivi e non proiettivi, cioè fra le diagnosi fatte con processi analogici e quelle fatte con modalità digitali. In un’ottica gestaltica sono eventualmente praticabili le diagnosi fatte con test proiettivi: le altre qui sono praticamente inutilizzabili. I test proiettivi sono in realtà un mondo complesso: per esempio non c’è solo un TAT, ce ne sono molti, di cui alcuni da leggere in modo digitale, altri che si muovono più sul versante analogico. Se per motivi contingenti si ha proprio bisogno di test, qui è consigliabile un TAT con lettura analogica, che faccia cioè una diagnosi di processi non di strutture. Quando si diagnosticano strutture poi si tende a rimanerci ancorati, cioè ci si crede, si pensa che esistano, si pensa che psicotico significhi una struttura psicotica, non un comportamento psicotico: se si vuol fare qualcosa che abbia migliori chances di produrre cambiamento, bisogna confrontarsi con quello che si muove, piuttosto che con strutture immobili.

Santoro Sembra infatti che nella diagnosi sia compresa in qualche modo anche la prognosi: quando ad esempio si parla di schizofrenia cronica, è come se lo scopo della diagnosi fosse legittimare il lasciare le cose così come sono…
Cambiando discorso, nel concreto dell’agire psicoterapeutico, a me si è posto un altro problema: mentre nella psicoterapia della Gestalt ci si basa sulla responsabilità e quindi sulla volontà della persona di voler cambiare qualcosa della propria vita, nel caso dei disastri psichici, piuttosto che dei disagi, questa volontà, almeno in modo esplicito, non sembra esistere. Mentre eticamente appare necessario proprio questo agire terapeutico, qui non si può lavorare appellandosi alla responsabilità. Come si risolve secondo te questo incastro, se così vogliamo chiamarlo?

Quattrini C’è un problema linguistico importante: la benzina del lavoro non è la volontà di cambiare, ma sono semplicemente i desideri della persona. Una persona può essere disastratissima, ma sempre vuole qualcosa: se per assurdo non volesse niente, non ci sarebbe nessuna possibilità, ma finché è vivo ognuno vuole qualcosa, da cose che può avere a cose che non può avere, da cose possibili a cose impossibili, c’è una gamma vastissima. Un essere vivente che non abbia l’elettroencefalogramma piatto, vuole, sempre, costantemente, è intenzionato, come dicono i fenomenologi. La scommessa consiste nell’incanalare quel volere, tanto o poco che sia, su cammini percorribili: questa è l’abilità e la tecnica dello psicoterapeuta. Anche se tecnica in realtà non si può proprio chiamare, perché non esiste tecnica al mondo che possa riuscire a incanalare gli strampalati desideri delle persone su strade plausibili. Esiste solo una abilità data dall’esperienza, da esperienze di vario tipo e fondamentalmente dall’esperienza della propria terapia. Uno psicoterapeuta è semplicemente qualcuno che conosce bene il territorio del suo mondo interno, e con questo diventa capace di accompagnare gli altri in territori che, anche se diversi, sono analoghi a quelli che lui conosce. I nostri territori interni sono molto diversi, ma analoghi: un bosco è diverso da un altro bosco, ma se uno sa muoversi in un bosco bene o male saprà arrangiarsi anche in un altro.

Santoro È come se i desideri fossero un grimaldello per aprire scenari e prospettive….

Quattrini Io li chiamerei la benzina: è l’energia che porta il movimento. È quella che nel linguaggio fenomenologico si chiama l’intenzione. L’approccio fenomenologico si basa su questo: un essere vivente è naturalmente e inevitabilmente intenzionato, cioè si muove perché intende, nel senso di in-tende, tende verso. È su questo in-tendere che lo psicoterapeuta si può sintonizzare per condurre una terapia. L’intendere in un’ottica fenomenologica è la parte basilare dell’esistenza: in un’ottica freudiana si considerano base i simboli, mentre in un’ottica fenomenologica la base è l’intendere. Questo non significa che sotto l’intendere non ci sia qualcos’altro, è solo l’ultima base per quello che riguarda il fenomeno vita: più in basso dell’intenzione non c’è vita.

Santoro Questo come attraversa l’etica della relazione d’aiuto, e la necessità della relazione d’aiuto, soprattutto ai livelli profondi del disagio, quelli meno gestibili a parole?

Quattrini L’etica è un campo di valore definito dall’esperienza del buono, cioè l’esperienza del buono è la base dell’etica: esiste l’etica perché esiste l’esperienza del buono. Esiste il fare sociale perché esiste l’esperienza del buono. Esiste la cultura umana perché esiste l’esperienza del buono, del bello e del logico, che alla cultura sono precedenti. La cultura nasce perché sulla base di queste tre esperienze c’è una bussola: gli esseri umani creano la cultura facendo più bello, più buono e più logico. L’esperienza del buono precede la ricerca etica. La ricerca etica è la ricerca del più buono: quando si agisce, di solito si cerca di fare più buono, più bello più logico possibile. Per il valore non c’è spiegazione, se non quella tautologica: valore è valore. Perché perseguire buono? Perché è buono! Però questo non significa che si è obbligati a perseguire buono: ci sono persone che non perseguono questi valori, e il libero arbitrio permette di perseguire il buono o il non buono. È in questa logica che il cristianesimo immagina la differenza tra il muoversi verso l’inferno o verso il paradiso: se non fosse che così si preserva il libero arbitrio e si valorizza le scelte, nell’ottica cristiana sarebbe ben difficile immaginare perchè il buon Dio abbia fatto anche l’inferno, invece di un’umanità che va solo in paradiso. Il discorso sull’etica riguarda la direzione in cui si fanno le scelte: nella terapia si riferisce alle scelte del terapeuta, che si muove sperabilmente in direzione del valore etico, in accordo col buon senso che dice che buono è più augurabile che cattivo, e che aiuta il paziente a rendersi conto del sapore delle proprie scelte tenendocelo in contatto con la incessante domanda “e ora cosa senti?” La necessità dell’aiuto è sempre relazionabile con il migliorare la qualità delle scelte, cioè con uno spostamento verso il più buono, più bello, più logico, cioè più funzionale, almeno finché si considera il buon senso come un criterio applicabile alla psicoterapia.

Santoro E qui infatti nasce un altro nodo concettuale: la responsabilità nelle sue forme civili penali ecc, con il concetto di malattia che si traduce come la razionalizzazione dell’assenza di responsabilità, e come invece si usa nella Gestalt. Se malattia mentale è ciò che definisce un processo svincolato dalla responsabilità individuale, è chiaro che nella Gestalt questo concetto non esiste: però c’è nella pratica e nel linguaggio…

Quattrini Nel linguaggio corrente c’è confusione tra responsabilità e colpa: la tradizione cristiana utilizza fin dalle origini la polarità di colpa e innocenza come bussola delle cose umane, e per questo questi due concetti sono profondamente radicati nel nostro modo di pensare. La responsabilità ha un’origine culturale meno remota, ed è meno assimilata al pensiero corrente. La responsabilità è il rispondere di quello che si è fatto, e si risponde sempre, per forza, di quello che si fa: che una persona sia grande, piccola, bianca, nera celeste o verde, e soprattutto colpevole o innocente, risponde comunque di quello che ha fatto.
Esistono è vero cavilli legali per cui certe persone non vengono chiamate a rispondere socialmente delle loro azioni, per esempio magari ha ammazzato qualcuno ma è minorenne e non si mette in prigione: questo, socialmente parlando, in una cultura con l’ideologia dell’innocenza, è possibile, ma nella realtà esistenziale l’innocenza non esiste: se per esempio si investe qualcuno senza colpa, non si può credere che solo per non avere legalmente colpa questo non pesi sulla coscienza, l’empatia non è un optional, è parte integrante della struttura della mente, anche se può essere allontanata dal focus dell’attenzione.
L’innocenza, in realtà, è un trucco concettuale che ha a che fare con l’organizzazione sociale e che serve a molti scopi, non ultimo a salvaguardare le operazioni sporche fatte sotto l’ombrello del potere. Chi riveste un alto grado sociale può fare le peggio cose rimanendo innocente, come tutti sanno di 007 e della sua famosa licenza di uccidere.

Santoro Questo che c’entra con la responsabilità come capacità di rispondere? Esiste un’incapacità di rispondere?

Quattrini Responsabilità non è capacità di rispondere, è il rispondere medesimo. Se io giro in maglietta e fa freddo, ne rispondo magari prendendo il raffreddore. Che posto c’è per l’incapacità di rispondere? Il raffreddore poi me lo devo comunque sopportare.

Santoro Quindi è sempre qualcosa che si determina a posteriori rispetto all’atto? In un certo senso è come se fosse la semplice relazione tra soggetto e predicato, e nominarla un modo per fermare l’attenzione e il tempo sul soggetto con rispetto al suo predicato?

Quattrini Sì: la responsabilità è la conseguenza del fatto che tutto costa e la logica della responsabilità rispetto alla logica dell’innocenza/colpa è solo una logica di relazione tra la persona, i costi e i benefici: con l’innocenza si va in paradiso, con la responsabilità si va dove portano i propri piedi. Come si sa, “mentre le bambine buone vanno in paradiso, le altre vanno dappertutto”. Se si commettono atti che portano disgrazia alle persone, si vivrà in un campo di forze di disgrazie, nel campo di forze del dolore delle persone a cui si è procurato dolore e della coscienza di averglielo procurato. Questo comporta fra l’altro la consapevolezza delle possibili ritorsioni, per cui poi tanto tanto fiduciosi per il mondo non ci si può andare, e senza una fiducia di base si perde un sacco di possibilità e si finisce per vivere una vita più o meno paranoica. L’inferno è già qui. Forse ci sarà anche di là, non lo sappiamo, ma qui c’è di sicuro.

Santoro Ho l’impressione che anche la teoria del carattere corra gli stessi rischi paradigmatici della diagnosi psichiatrica: ipotizzare strutture caratteriali non è congruo ad una fenomenologia, ma eventualmente ad un’epistemologia. E pensavo anche che, esattamente come la diagnosi, diventa uno strumento di potere che utilizza il medico o lo psicologo per gestire il rapporto con il cliente. Che ne pensi?

Quattrini Per questo è estremamente importante che chi usa la teoria del carattere non dica alle persone che hanno questo o quel carattere, che si ricordi che il carattere è un processo, piuttosto lento, ma sempre un processo: non è cioè che una persona che ha un certo carattere si comporta necessariamente in una certa maniera. L’utilità dello studio del carattere è capire le alterazioni dell’autoregolazione organismica per trovare modalità di tornare indietro. Paradossalmente, non è tanto importante conoscere il proprio carattere, quanto capire qualcosa delle cosiddette virtù, cioè dei processi per riequilibrare le alterazioni dell’ecosistema. Dire alle persone che hanno un carattere o un altro è del tutto controproducente, in quanto rende più difficile alle persone l’immaginare come è avere un carattere o un altro, in modo da farsi un quadro delle alterazioni dell’ecosistema e di come si può tornare indietro. Andare in giro ad affibbiare caratteri è una stupidaggine di basso conio, come è una stupidaggine immaginare che sapere il proprio carattere serva a molto. Ai pazienti che chiedono che carattere hanno rispondo che se glielo dicessi io loro smetterebbero di pensarci: una volta che avessero la diagnosi smetterebbero di guardare il carattere come processo, e allora diventerebbe una conoscenza inutile. L’idea del carattere serve ad operare una focalizzazione per vedere meglio i propri processi interni.

Santoro Mi vengono in mente alcuni pazienti che subiscono una diagnosi psichiatrica e poi la usano per non agire nessun tipo di cambiamento dicendo “ ma io sono schizofrenico, certe cose non le posso fare…”

Quattrini C’è un esempio lampante e atroce di questo in “Berlinguer ti voglio bene” di Benigni, una scena in un bar dove un avventore dice a un altro: “hai visto, avevo ragione io, non sono grasso, sono gonfio…. c’ho il cancro!” È una metafora perfetta dell’uso demenziale della diagnosi. E’ lo stesso per il carattere: “non è colpa mia, mi comporto così perchè sono, mettiamo, un carattere X….” Utilizzando un linguaggio corretto non si dice “sono un carattere X”, ma “faccio il carattere X”. A questo discorso la risposta ovvia sarebbe “se non ti piace, allora smetti di farlo!”….

Santoro Le metafore, e in particolare il romanzo come contenitore dentro al quale ci sono i personaggi, possono funzionare secondo te come strumenti diagnostici da utilizzare in un contesto terapeutico qualsiasi?

Quattrini In questo senso è stata utilizzata, per esempio, per larghissimo tempo la Bibbia. Dove la gente era lontana da centri organizzati e abbandonata a sé stessa, spesso utilizzava per supporto decisionale e esistenziale la Bibbia, e per qualunque problema che non riuscissero a risolvere cercavano supporto qui: aprivano la Bibbia a caso, leggevano un versetto e da lì per via analogica cercavano una risposta alle proprie cose. La Bibbia è fatta di tanti racconti, che funzionano come verità narrativo-metaforica: un racconto, un personaggio che fa qualcosa, diventa metafora di qualcos’altro. Per esempio, il racconto di una persona che fa qualcosa che finisce male può essere una metafora che suggerisce alla persona di non fare quella cosa, oppure può essere metafora di un rassegnarsi al fatto che le cose comunque vadano bisogna prenderle come sono che è praticamente l’opposto. La verità narrativo-metaforica è presa da ogni persona a suo modo: è come se supportasse una sua verità o una sua decisione, o che aprisse un cammino interno, e in questo senso i racconti hanno un grande potere psichico. Si legge un racconto, ci sono tanti eventi, alcuni passano come niente, alcuni colpiscono: nei punti dove i racconti colpiscono, per la persona si apre una nuova possibilità.

Santoro E sono un momento diagnostico, nel senso di una lettura fenomenologica della persona. Il tema di Edipo ad esempio… ci sono personaggi che evocano comportamenti e vissuti di tutta l’umanità …

Quattrini Sì: un romanzo, attraverso i suoi personaggi e lo svolgersi dell’azione dà forma a qualcosa che esiste potenzialmente in tutti. A questo proposito è interessante quello che diceva Victor Turner, un acuto antropologo sociale: il teatro è un modo di andare oltre i confini che i tabù culturali segnano. I tabù delimitano il comportamento umano: il teatro allora mette in scena quello che non si può fare, e così offre la possibilità di fare esperienze nuove senza dover uscire dal seminato.
Da un punto di vista strettamente diagnostico, c’è un fenomeno letterario curioso: Agatha Cristie ha creato il personaggio di un’investigatrice, Miss Marple la quale procede attraverso un interessante diagnosticare analogico. Lei si trova in situazioni limite, di omicidi e crimini efferati, e riconosce dei pattern psichici in certi personaggi, confrontandoli con l’esperienza che ha della vita nel villaggetto dove abita, dove non succede quasi mai nulla: certe atmosfere che si ripetono, certe Gestalt, certi oloidi come li chiamerebbe Perls, sono in effetti riconoscibili. In parte si tratta di effetti del carattere, ma in parte sono… come dire… inclinazioni della persona che magari portano più facilmente all’omicidio, o comunque a certe particolari uscite fuori dai limiti consentiti socialmente. Non c’è una relazione meccanica, e si vede bene dal fatto che lei connette persone che hanno commesso omicidi con persone che non hanno mai fatto niente di male, ma che hanno fatto qualcosa di un certo tipo….

Santoro Uno stile simile….

Quattrini Uno stile simile, esatto. La parola è proprio stile: se nella Gestalt non possiamo parlare di strutture perché non abbiamo strumenti congrui alla metapsicologia, possiamo parlare di stile, perché lo stile non si inferisce, si riconosce. Per le strutture bisogna fare un’inferenza, dato che non si vedono, lo stile si vede.

lunedì 29 dicembre 2008

Psicoterapia della Gestalt

Perché siamo come tronchi nella neve.
Apparentemente vi sono appoggiati, lisci, sopra, e con una piccola scossa si dovrebbe poterli spingere da una parte.
No, non si può, perché sono legati solidamente al terreno. Ma guarda, anche questa è solo un’apparenza.
Franz Kafka